lunedì 9 marzo 2015

Il blues delle origini e la preparazione del caffè

Se in principio era il blues, noi non sappiamo. Parlerebbe Skip James dalla foto giallo seppia? Parlerebbe mentre sbircia queste vite facili? Parlerebbe si, in bianco e nero, da contrabbandiere redento, posseduto e strillone, biascicando il Nuovo Testamento ad un pugno di negri dalle mani callose. 
Sono lontani i tempi dell'aborto con l'uncinetto, ma non tanto. 

Lo specchio ha girato due volte sopra Torino, sopra i mestieri monotoni e i disoccupati, sopra i tranvieri, gli omosessuali, i tristi, i rovistatori di cassonetti, le strade lastricate di pietra dura: lo specchio ha portato sfortuna.

Anno cinque della Piccola Depressione: va tutto abbastanza male e c'è chi è stanco di provare a star meglio. A ritrovare speranza si fa sempre in tempo, ma il tempo da queste parti scarseggia: è un rigagnolo che a stento si insinua nell'arsura delle menti nostre.

Mentre aspetto Blind Lemon Jefferson mi faccio un caffè, preparo una tazza per lui. Dice di sapere una cosa che farà cantare le molle del mio letto; io ci credo, se lo dice lui. La caffettiera brontola. Jefferson è arrivato ma non saluta. Non si siede, non parla, non vede, non beve e poi non è più. Offendersi per un caffè è da lui.


Nel frattempo i giovani intellettuali serrarono le fila di fronte alla slavina di volgarità che venne da fuori, forse dalla Svizzera. Era tardi però, e a nulla valsero le marce per i diritti dei gay, le marce contro la TAV, le marce contro il governo, le marce contro la disoccupazione: le marce erano marce, ed il marciume era al bordo del secchio, e straripava e schiumava in un incontrollato colpo apoplettico plurale. 

Infine fu l'alba ed in fondo alla strada, all'incrocio, Johnson sussurrò Sweet Home Chicago ad una gatta madre di cinque micetti che crebbero forti e fieri, e felici di non dover volare sul rosso dei tetti da soli.








  

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